HANNAH ARENDT: “LA BANALITÀ DEL MALE”
Un nuovo appuntamento del Gruppo di lettura
MERCOLEDÌ, 25 MAGGIO 2016 - ORE 20.00
Mercoledì 25 maggio alle ore 20.00, le Amiche e gli Amici del Circolo della Lettura ‘Barbara Cosentino’ tornano a riunirsi intorno ad un saggio filosofico di grande pregnanza storica, etica e morale: “La banalità del male” della filosofa, storica e scrittrice tedesca Hannah Arendt, emigrata all’inizio degli anni Trenta negli Stati Uniti, dopo una breve carcerazione in Germania, a causa delle sue orgini ebraiche e delle sue opere.
Ne “La banalità del male” Hannah Arendt ripercorre i momenti salienti delle 121 udienze in cui si articolò a Gerusalemme, nel 1961, il processo ad Adolf Eichmann, ufficiale nazista responsabile della deportazione degli ebrei nei vari campi di concentramento, che divenne una pietra miliare nella storia della nascita di una Corte Penale Internazionale, avvenuta solo diversi decenni dopo, e nella definizione della fattispecie di crimine internazionale.
Dai verbali si evince come Eichmann, all’inizio dei suoi incarichi, avesse maturato posizioni filosioniste, per via delle sue letture soprattutto. Era sua opinione che bisognasse «mettere un pezzo di terra sotto i piedi degli ebrei» e fu proprio lui a vagheggiare, quale “soluzione politica” alla questione ebraica, il trasferimento in massa degli ebrei in Madagascar. Una dopo l’altra, le “soluzioni politiche” fallirono e la “soluzione fisica” prevalse. Eichmann, militando nel Reich, vi prese parte in molteplici modi.
È meglio subire un torto piuttosto che commetterlo; è meglio per me, essendo uno, essere in contrasto con tutto il mondo piuttosto che con me stesso.
(Socrate)
Nel processo si dichiarò ripetutamente scioccato da quello che aveva visto, intravisto o intuito nei campi di concentramento e dichiarò di avere riferito ad altri militari la propria repulsione e il suo ribrezzo. Al centro del saggio diviene ineccepibile l’evidenza che egli fosse sano di mente e giuridicamente responsabile, ma la Arendt si chiede: «l’uccisione degli ebrei aveva mai provocato in lui crisi di coscienza?»
E ancora: «Poteva essere sollevato dalla responsabilità penale?»
Vigevano le norme create ad hoc per gli ebrei collaborazionisti, con cui si giustificavano i medesimi perché speravano di evitare conseguenze più gravi per le loro collettività o sottrarre se stessi dal pericolo grave e imminente di morte. Eichmann non rientrava nell’ambito di applicazione di queste norme, perché non era in pericolo di morte. L’unica attenuante che la difesa sembrò sostenere era che egli avesse fatto quanto in suo potere per «evitare il più possibile inutili brutalità», ma egli obbediva ad un ordine superiore!
Così l’Autrice passa a ragionare sul concetto di “azione di Stato”, definita come esercizio del potere sovrano, fondato su alti valori sociali. Si divaricano le coordinate di una deriva etica e morale di un’intera società, fra le quali scivola e si insinua la banalità del male.
Ma siccome Eichmann si era occupato del trasporto delle vittime e non dell’esecuzione, giuridicamente o almeno formalmente restava la questione se a quel tempo egli sapeva che cosa faceva, e inoltre se era in grado di giudicare l’enormità delle sue azioni. In altre parole, bisognava appurare fino a che punto, per quanto sano di mente dal punto di vista medico, era responsabile giuridicamente.
La recensione di Giuseppe Grassonelli
Prima di spiegare il Male occorrerebbe chiedersi cosa sia esattamente il suo opposto e cioè il Bene. Non sempre è possibile fare una distinzione netta dei due concetti, specie quando parliamo dell’essere umano.
Il Bene è ciò che è bene per tutti – mi ha insegnato il mio professore di filosofia. Se è così, possiamo quindi affermare che il Male è ciò che è male per tutti. È un ragionamento logico, sono d’accordo, ma davvero è così semplice?
Spesso noi esseri umani non sappiamo che cosa è bene e cosa è Male fare, sappiamo ciò che fa male e ciò che fa bene. Sappiamo fare bene e male, sappiamo anche che ciò che fa male può fare bene e ciò che fa bene può fare male. È complicato. Sappiamo che l’uomo per sua natura è sempre tormentato da contraddizioni e lotte interiori. La nostra stessa coscienza, lo abbiamo esperito tutti, è spesso spaccata: dialoghiamo con noi stessi, ci rivolgiamo avvertimenti e consigli; ci dividiamo nelle voci discordanti dei nostri desideri e nelle nostre credenze, Le nostre armi, normalmente, sono l’autoanalisi e l’introspezione. Gli animali, al contrario, non hanno questi problemi. Questi seguono semplicemente il loro istinto naturale: uccidono le proprie prede non per il piacere di farlo, ma per ragioni di sopravvivenza. L’uomo è il solo animale per il quale la Storia ci documenta la capacità di uccidere per il solo piacere di farlo, ma c’è anche di peggio, purtroppo: l’uomo è stato capace di fare del male senza provare nessuna emozione e con la sola scusante di avere eseguito un ordine. Proprio Hannah Arendt, negli anni Sessanta, con la sua opera “La banalità del male” ci ha spiegato che è possibile che l’uomo provochi dolore e sofferenza agli altri uomini, rimanendone completamente indifferente. E non per questo si trova a essere considerato un cattivo cittadino. Il caso Eichmann in questo senso è eclatante. Ufficiale nazista condannato dalla Storia per essere stato uno dei responsabili dello sterminio nei campi di concentramento di quasi sei milioni di ebrei, in un’operazione pianificata e realizzata da un apparato amministrativo complice di tutte le strutture di potere del regime di Hitler. Nel corso del processo, Eichmann si difese sostenendo di avere ricevuto degli ordini superiori e conseguentemente, di essere vincolato dal dovere di obbedienza.
Durante il dibattimento in aula, la Arendt comprese che il male commesso da Eichmann era dovuto non al suo animo malvagio, ma alla sua totale incoscienza del reale significato criminale delle sue azioni. “Ho ubbidito a degli ordini” continuò a ribadire il nazista nella sua difesa quasi stupito che il Tribunale non capisse come il suo comportamento fosse stato “normale”. D’altronde, egli aveva ragione dal suo punto di vista: qualsiasi militare tedesco avrebbe agito nello stesso modo al suo posto. Il dovere, l’obbedienza alla legge, l’esecuzione di ordini superiori richiedevano zelo e lealtà. Il “dovere” imponeva di uccidere tutte quelle persone innocenti, che covavano la colpa di non rientrare negli schemi di umanità stabiliti dal Reich. L’obbedienza assoluta era il principi supremo, nella credenza che senza disciplina nessuna comunità si potesse conservare.
Da questo atteggiamento l’Autrice trasse il profilo non di un criminale, ma di un uomo semplice, privo di morale e condizionato dalla società in cui viveva. La sua morale, in altre parole, era data dalla società che aveva intorno: egli sapeva perfettamente quale sarebbe stato il destino degli ebrei da lui fatti trasferire a forza nonostante ciò, non fece nulla per contrastarlo. Questo processo dovrebbe farci riflettere sulla natura umana, mai scontata come si potrebbe credere: l’ufficiale tedesco, infatti, nonostante i suoi efferati crimini, non era un uomo anormale, assolutamente no. Per quella società egli era una persona civile e questo fatto è agghiacciante. È spaventoso sapere che degli uomini “normali” che si comportano come corretti cittadini in un’ordinaria quotidianità, possano essere pronti ad applicare l’ordine di uccidere innocenti col massimo zelo, nel momento in cui esso divenga un dovere.
Abbiamo quindi visto con quanta velocità possa essere sostituita la morale di una società. I codici di norme, usi e costumi, che sono il frutto di secoli di civiltà, possono essere sostituiti senza tanti problemi. È l’esempio lampante del possibile crollo morale, in ogni tempo e luogo, di ogni buona società. Quando la coscienza di un uomo è vuota, quando essa non ha un proprio linguaggio, ma articola soltanto la lingua della propria rispettabile società, quella coscienza è capace di commettere qualsiasi brutalità senza turbamenti: Eichmann non rimane impassibile alla voce della propria coscienza, al contrario resta in suo fedele ascolto e questa gli dice che non vi è nulla di sbagliato nell’uccidere milioni di vittime innocenti. Eichmann può essere uno qualunque di noi e fra noi.
La “banalità del male” si arresta soltanto attraverso un giudizio che sia capace di riuscire a distinguere, in assenza di leggi e principi condivisi, ciò che è male e ciò che è bene. Per quel tipo di giudizio che ci esenta dal commettere il male non serve, dunque, una specifica cultura, ma occorre semplicemente la capacità di pensare in piena autonomia. E dove questa capacità è assente, là si trova potenzialmente “la banalità del male”. Del resto, se gli esseri umani potessero sempre richiamarsi agli insegnamenti di un sapere acquisito, ogni nostra decisione sarebbe già presa, ma in questo caso si tratterebbe di irresponsabilità e mancanza di giudizio. Per giudizio non si deve intendere soltanto la semplice messa in atto di un sapere normativo: la morale non è una tecnica, non è qualcosa che si possa trasformare secondo le proprie convenienze. In tale prospettiva, reagire al male significa addestrare il pensiero ad interrogare regolarmente se stesso, impedendo ad una qualsiasi ideologia di mettere fine al dialogo con se stessi. Ogni essere pensante dovrebbe sapere che deve innanzitutto vivere con se stesso e che inevitabilmente ci saranno sempre dei limiti a ciò che gli sarà permesso di fare. Nessun criterio universale e nessun richiamo al dovere verso l’etica di una determinata comunità, possono giustificare una mancata responsabilità. Non vi è etica senza responsabilità. L’insegnamento che ne ricaviamo dalla Arendt è quello che dobbiamo vivere le nostre vite rimanendo sempre “presenti” nella realtà che ci circonda senza allontanarci dalle responsabilità individuali. Il male è banale quando diventiamo inconsapevolmente autori di atti nei quali non facciamo valere la nostra ragione: è banale quando ubbidiamo ciecamente, quando un potere qualunque può utilizzarci come vuole. Gli uomini dovrebbero lottare ogni giorno contro il Male e questo può essere sconfitto soltanto dal Bene. Le “lotte di Bene” sono quelle che si avviano in se stessi e con gli altri in vista di relazioni in grado di aumentare l’affermazione del Bene comune di una collettività. Lotte di Bene sono quelle che procurano bellezza sempre e ovunque.
La mia riflessione sulla banalità del male si fonda, pertanto, sull’assenza di giudizio dell’essere umano e conseguentemente ne determina la decostruzione dell’autonomia dal Sé morale.
Giuseppe Grassonelli - Milano, 7 maggio 2016
L’incontro, realizzato con la collaborazione della Libreria L’Argonauta, è aperto a tutti i lettori che vogliano partecipare. Il Circolo della Lettura ‘Barbara Cosentino’ vi invita ad intervenire numerosi, per esplorare insieme i meandri dell’umanità e condividere, ancora una volta, la passione per la letteratura e la lettura!
Gli incontri del Gruppo di lettura sono aperti al pubblico, previa prenotazione obbligatoria, con prelazione dei Soci.